“Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. Ogni volta che ascoltiamo questa canzone di De Gregori non possiamo fare altro che pensare al calcio romantico e impregnato di valori di un tempo che fu. Un’epoca in cui le divise dei calciatori erano senza sponsor, dove i biglietti costavano poco e gli stadi erano pieni; luoghi dove colore, passione, fumogeni, bandiere e tamburi erano all’ordine del giorno.
Quando lo speaker annunciava le formazioni e i giocatori scendevano in campo, le vene si irroravano di adrenalina e il cuore scoppiava di gioia.
Si partiva in trasferta in massa, i papà potevano portare i propri figli allo stadio comprando i biglietti il giorno stesso della partita e non c’erano tessere del tifoso, tornelli, telecamere, pay tv e calcio spezzatino. Si giocava sempre di domenica in modo da poter permettere ai tifosi in trasferta di raggiungere anche le località più lontane. Il calcio era magia, aggregazione, amicizia.
Ai Derby c’erano decine e decine di pivelli senza biglietto che scavalcavano il cancello ed entravano allo stadio nella bolgia della Sud. Era emozionante tutto il contesto che precedeva la partita.
Erano gli anni 60/70/80 fino ai primi anni 90. Gli anni del calcio popolare. L’era del consumismo e delle “marche” era già iniziata ma non aveva ancora mostrato pubblicamente tutta la sua malignità.
E poi c’era il calcio, i tackle rudi, l’odore dell’erba del campo e il sudore delle magliette. C’erano calciatori che giocavano per la maglia e non solo per i soldi, che rifiutavano trasferimenti solo per l’orgoglio di aver giocato con una squadra piuttosto che un’altra.
Ci facevano emozionare; ci sentivamo rappresentati da loro, in campo e nella vita.
Una volta c’erano presidenti come Paolo Mantovani, pronti ad impegnare i propri patrimoni per fare felici i tifosi e godere delle prodezze dei propri fuoriclasse. Si giocava per lo sport, per la vittoria, per la gloria, e le persone meno fortunate trovavano spesso un riscatto sociale in quello straordinario crogiolo di emozioni chiamato calcio, che veniva vissuto prima, durante e dopo la partita.
Oggi il nostro amato sport non si può più considerare tale. Siamo costretti a leggere le recenti vergognose dichiarazioni di personaggi arroganti e arrivisti come Aurelio De Laurentiis, che durante un’intervista al New York Times ha detto: “Che ci fa il Frosinone in Serie A? Non attira spettatori, né interessi, né emittenti nel campionato. Arriva in A, non cerca di competere e torna indietro. Se non possono competere, se finiscono ultimi, dovrebbero pagare una multa e non dovrebbero ricevere denaro”.
Più o meno lo stesso concetto espresso da Claudio Lotito, che alcuni anni fa dichiarò che squadre come Carpi, Latina e Frosinone, in caso di promozione in serie A, a causa di un seguito limitato, non avrebbero portato nessun beneficio al Sistema Calcio Italiano.
Frasi emblematiche della fine che ha fatto il nostro amato calcio, maneggiato da un manipolo di squallidi imprenditori e marketing manager che non hanno nessun altro fine se non quello di ricavare dei profitti.
Così è iniziato il bailamme degli sponsor. Il tifoso ha subito l’onta di vedere i bellissimi colori storici delle proprie amate maglie dileggiati da orrende e grottesche sponsorizzazioni, o divise disegnate in stile coca cola e sprite con tonalità dettate dal marketing che nulla hanno a che fare con la storia della società.
Le pay tv hanno a tutti gli effetti allontanato le persone dal calcio e dagli stadi, spezzettando il campionato in un palinsesto composta dai migliori indici di ascolti possibili, per portare a casa share e di conseguenza investitori. Gli stadi sono stati trasformati in grandi supermercati per i consumatori che possono così andare alla partita e contemporaneamente fare la spesa. Il caro biglietti da questo punto di vista è il paradosso più grande. Prezzi folli fatti ad arte per disincentivare il tifoso ad alzarsi dal divano e di conseguenza aumentare lo share televisivo, in assoluta contrapposizione con i media che sventolano pubblicamente il problema degli stadi vuoti. Ma come in tutti i sistemi creati ad arte c’è sempre il giusto capro espiatorio. La colpa ovviamente è degli Ultras che con i loro comportamenti privano le famiglie della sicurezza e della tranquillità di godersi lo spettacolo. Ultras, che tutt’oggi sono tra i pochi clienti rimasti fedeli nella desolazione degli stadi italiani.
Con la logica dell’impresa, il calcio è diventato un business dove faccendieri come i suddetti presidenti,
fanno quello che vogliono infischiandosene dei tifosi e delle loro esigenze, ragionando solo sui diritti televisivi e sugli sponsor.
Cosa è rimasto oggi al tifoso se non la gioia del gol, dove ci si può abbracciare ed esultare urlando al cielo la propria felicità? Giustappunto, ecco il VAR, uno strumento di “giustizia calcistica”, in grado di annullare un gol o convalidarlo a distanza di 10 minuti, eliminando di fatto l’unicità del momento.
Oggi non c’è un solo tifoso che, prima di esultare, non guardi l’arbitro che parla all’orecchio in attesa di sapere se il gol è valido oppure no. Che tristezza.
Durante l’amichevole del 4 gennaio 2017, tra il Club Africain e il Paris Saint Germain degli sceicchi arabi, i tifosi tunisini esposero un’imponente striscione con una scritta in inglese: “Created by the poor, stolen by the rich” (creato dai poveri, rubato dai ricchi). Il riassunto perfetto di uno sport che ha perso tutta la sua natura e la sua connotazione popolare e sociale in favore di un business scellerato che non guarda più in faccia nessuno.
Tocca a noi ognuno di noi, oggi, contribuire per cercare di cambiare rotta e riportare il calcio a essere uno sport. A partire dall’atteggiamento in Gradinata, dove ormai siamo sempre più spettatori di questo teatrino e sempre meno parte attiva nel colorarla e renderla quel meraviglioso spazio autogestito, squisitamente popolare, caldo ed entusiasmante che ci ha abituati ad avere la pelle d’oca ogni volta che cantiamo l’Armata. E’ necessario opporsi e informarsi nei confronti di questa piega/piaga che si chiama calcio moderno, che non apparteneva ai nostri avi, da cui lo abbiamo ereditato, e che abbiamo il dovere di difendere a qualsiasi costo. Dall’aggregazione nasce la condivisione. Dalla condivisone possono maturare il dissenso e l’opposizione. Dall’opposizione può nascere il cambiamento.